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PSICHIATRIA DEMOCRATICA |
15-09-2003 Lettera a Berlusconi di Gian
Carlo Caselli Signor Presidente del Consiglio: non è la prima volta che Lei
rivolge, a singoli magistrati o alla magistratura, attacchi pesanti
e a mio giudizio immotivati. Ma nella Sua recente intervista ai giornali
“La voce di Rimini” e “Spectator” c’è di più. Nel Suo mirino (oltre
a Magistratura democratica, da Lei assunta a paradigma di un “sistema giudiziario
completamente politicizzato”) sono finiti, nell’ordine: le intere
Procure di Milano e di Palermo, cui Lei addebita di “non fare altro
che inventarsi teorie” sul Suo conto; tutti i giudici di Roma, da Lei
accusati di aver partecipato (tutti…) a un “sistema di conti bancari
che andavano su e giù dalla Svizzera”; i magistrati che hanno condannato
a 20 anni il sen. Andreotti (penso che volesse riferirsi al processo
di Perugia per l’omicidio Pecorelli); i magistrati che contro il sen.
Andreotti “hanno creato una montatura per dimostrare che la Democrazia
cristiana (…) non era un partito etico ma un partito vicino ai criminali”
(il riferimento, in questo caso, si estende al processo di Palermo per
associazione mafiosa); tutti i magistrati indistintamente, poiché Lei
sostiene che “per fare questo lavoro bisogna essere malati di mente; se
fanno questo lavoro è perché sono antropologicamente diversi
dal resto della razza umana”. A fronte delle vigorose e
severe reazioni che ne sono seguite, Lei ha diramato un comunicato in
cui si afferma che il Suo “rispetto per l’impegno della magistratura
non può essere messo in discussione” e si ribadisce la “presenza di
incontestabili comportamenti faziosi di singoli procuratori”. Dunque, le Sue
contestazioni non riguarderebbero l’intiero ordine giudiziario, ma soltanto
singoli procuratori. Non è così, come dimostrano le vicende del
nostro Paese degli ultimi anni. All’inizio, è vero, ad essere oggetto –
non di critiche (ovviamente legittime e spesso utili) – ma di attacchi apodittici
e indiscriminati sono stati solo alcuni procuratori. Ma poi,
man mano che le indagini si concludevano, hanno cominciato ad essere
delegittimati e offesi i magistrati giudicanti: tutte le volte in cui sono
stati chiamati a occuparsi di processi sgraditi e hanno deciso in maniera
contrastante con le aspettative degli interessati. Alla fine, l’attacco
- da Lei personalmente condotto con un intervento televisivo a reti
unificate - si è addirittura rivolto contro le Sezioni unite della Cassazione,
massimo organo giudiziario del nostro sistema, “colpevole” di non
aver applicato la “legge Cirami” come Lei e altri si aspettavano. Il
problema, allora, non è costituito da singoli procuratori. L’attacco è,
per così dire, a geometria variabile, nel senso che può subirlo qualunque
magistrato - pubblico ministero o giudice, quale che sia la città o l’ufficio
in cui opera - ogni volta che abbia la sfortuna (spiace dirlo: ma
è ormai questa la parola giusta) di imbattersi in vicende delicate. Ciò pone
una serie di interrogativi ineludibili. E’ giusto gettare pregiudizialmente
fango su un magistrato sol perché indaga o eventualmente condanna -
per fatti specifici - un personaggio pubblico? E, viceversa, è giusto applaudire,
sempre a priori, il magistrato che assolve quell’imputato? Quando
si tratta di personaggi di peso (imputati – ripeto - per fatti specifici
e non certo per il loro status) giustizia giusta è, per definizione,
solo quella che assolve? Ragionando in questo modo, non si sovvertono le
regole fondamentali della giustizia? Non si incide sulla serenità di giudizio?
Dove sta la linea di confine fra attacco e intimidazione? Aggiungo una considerazione
specifica. Recentemente la Corte d’appello di Palermo ha dichiarato estinto
per prescrizione il reato di associazione per delinquere ascritto al
sen. Andreotti, per il periodo antecedente la primavera 1980, affermando
di non poter pronunciare una assoluzione nel merito perché i fatti emersi
nel processo «… indicano una vera e propria partecipazione all’associazione
mafiosa, apprezzabilmente protrattasi nel tempo». Non sta a me dire
se queste conclusioni siano giuste o sbagliate, ma è difficile contestare,
alla luce delle stesse, una realtà: i pubblici ministeri che hanno istruito
il processo non hanno fatto altro che il loro dovere, traendo, da una massa
di elementi di fatto, le conseguenze previste dalla legge. Mentre
non agire sarebbe stato illegale e scorretto - ancorché comodo - e avrebbe
fatto perdere credibilità a tutte le altre inchieste condotte (anche
quelle che hanno consentito alla magistratura palermitana di infliggere,
nel triennio 2000-2002, ben 378 ergastoli per d elitti di mafia). A fronte
di questa realtà, è ingiusto impiegare slogan privi di consistenza per svilire
una attività giudiziaria doverosa a capitolo di un gioco della
politica: in cui i magistrati sarebbero semplici pedine, asservite
a strategie eterodirette e finalizzate alla supremazia di una parte contro
l’altra. Si può davvero pensare che i rapporti fra mafia e politica
– in Italia, in Sicilia – siano una invenzione interessata? Entrare in simili ragionamenti
(anche solo per difendersi da vuote accuse) costa molta fatica, ma tacere
sarebbe profondamente ingiusto: per me personalmente e per qualunque
altro magistrato, posto che l’investitura popolare non dà a nessuno
- neppure a Lei - il diritto di offendere. Per questo ho deciso di scriverLe
e di rispondere alle Sue dichiarazioni – pur nel rispetto dovutoLe
- con inflessibilità pari all’offesa che esse possono rappresentare per
la libertà e dignità professionale mia e di altri magistrati. E non sono
– mi creda – preoccupazioni che si possano liquidare accusan-do di “pazzia”
chi osa esprimerle. Con ossequio Gian Carlo Caselli Da "La Stampa" del
9.9.2003 |