PSICHIATRIA DEMOCRATICA

 

Convegno Psichiatria Democratica – Trent’anni, Matera, 13-14-15 novembre 2003

 

Psichiatria Democratica ha trent’anni: la storia, le battaglie contro l’esclusione, le lotte per i diritti, i nuovi impegni

 

di Rocco Canosa, Presidente Nazionale di Psichiatria Democratica

 

Ma le storie d’amore non finiscono mai

(Luca Carboni – cantautore)

 

 

“Cari amici,

dopo 11 anni di lavoro oggi lasciamo l’Ospedale e sapete con quale animo, dato che è anche il vostro. E’ inutile parlare ancora con voi del significato di questa nostra ultima presa di posizione: la conoscete perfettamente perché è nata dalle vostre stesse esigenze alle quali non era più di nostra competenza rispondere…Quest’ultimo gesto non è che la coerente dimostrazione pratica del rifiuto di accettare i limiti che ci vengono imposti dall’esterno e che interferiscono nel nostro lavoro distruggendolo e deteriorandolo attraverso la tecnica dei tempi lunghi, del rimandare a domani quello che si può fare oggi In queste condizioni noi stessi, alle vostre legittime domande “Quando vado a casa?”, dovremmo ripetere le menzogne dei vecchi manicomiali che rispondevano “domani”, sapendo bene che quel domani non esisteva nel vostro calendario…Quando uno di voi ha detto che la trasformazione in atto nel nostro Ospedale non era opera dei medici ma che i medici avevano messo le chiavi nella toppa e i malati le avevano poi girate per aprire la porta, aveva dimostrato di aver capito quello che altri organi responsabili non hanno ancora compreso…Per questo nel lasciarvi siamo sereni anche se addolorati.

Perché sappiamo che quello che abbiamo fatto assieme è vostro e nessuno potrà distruggerlo. Non solo ma perché abbiamo la certezza che tutti voi degenti e infermieri, siate in grado di continuare la vostra e nostra battaglia sapendo che noi saremo altrove, ma sempre lottando per le stesse cose: cioè a difesa di tutti gli uomini e non di noi stessi soltanto.

 

Firmato:

Domenico Casagrande - Piero Croci – Nicoletta Godschmidt – Bruno Norcio – Vincenzo Pastore – Renato Piccione – Paolo Serra – Ernesto Venturini – Franco Basaglia – Franca Basaglia OngaroGovanni Jervis – Letizia Jervis Comba – Vieri Marzi – Agostino Pirella – Lucio Schittar – Antonio Slavich”.

 

Erano alcuni brani tratti dalla lettera di congedo dall’Ospedale Psichiatrico di Gorizia dell’équipe diretta da Franco Basaglia: era il 1972.

Ho scelto di iniziare la mia relazione per evidenziare che l’esistenza di Psichiatria Democratica ha le sue radici in un rifiuto: quello di un gruppo di tecnici dell’esperienza più avanzata d’Italia, che al diniego dell’Amministrazione Provinciale di Gorizia di concedere case e strutture territoriali per i degenti del manicomio, vanno via.

Così come nel 1968 L’istituzione negata” nasceva da diversi “no”.

"Noi neghiamo dialetticamente il nostro mandato sociale che ci richiederebbe di considerare il malato come un non- uomo e, negandolo, neghiamo il malato come un non- uomo.

Noi neghiamo la disumanizzazione del malato come risultato ultimo della malattia, imputandone il livello di distruzione alle violenze dell'asilo, dell'istituto, delle sue mortificazioni e imposizioni; che ci rimandano poi alla violenza, alla prevaricazione, alle mortificazioni su cui si fonda il nostro sistema sociale”.

Neghiamo tutto ciò che può dare una connotazione definitiva al nostro operato. Nel momento in cui neghiamo il nostro mandato sociale, noi neghiamo il malato come irrecuperabile…".

Su questa negazione, allora, e dalle pratiche ad essa connesse si costituisce nell’ottobre del 1973, a Bologna, il primo nucleo di un gruppo denominato ‘Psichiatria Democratica’, nel cui documento programmatico si legge: “Il sistema sociale, mentre si rifà alle diverse branche della scienza per proporre una differenziazione apparente fra le diverse contraddizioni che deve affrontare, di fatto gestisce in modo univoco e puramente difensivo la problematica della marginalità: l’unica realtà è l’organizzazione in termini repressivi di una contraddizione che non può mai essere vissuta come tale. “Terapia” da un lato e “riabilitazione e rieducazione sociale” dall’altro, sono la giustificazione formale all’internamento, che è pratica incostituzionale perché concretamente finalizzata alla distruzione dei cittadini che avrebbero bisogno di terapia e di riabilitazione.

E così il 22 e 23 giugno del 1974 Psichiatria Democratica tiene il suo Primo Convegno Nazionale proprio a Gorizia dal titolo “La pratica della follia”.

Gianfranco Minguzzi, il Primo Segretario Nazionale di Psichiatria Democratica, nella sua prefazione così afferma:

“Da Gorizia sono emerse delle precise indicazioni: lotta contro ogni forma di segregazione e di repressione istituzionale , lotta contro la nocività in fabbrica e nel territorio; lotta contro l’uso selettivo ed emarginante delle strutture educative ed assistenziali; lotta per una gestione dei servizi sociosanitari veramente democratica, non mistificata dalla logica corporativa, speculativa e burocratica, tipica dell’attuale sistema sanitario e assistenziale…”

Come si vede i temi sono di grande attualità.

Nel settembre 1976 si tiene ad Arezzo il I Congresso nazionale di PD:

“Per quanto riguarda la psichiatria il rischio attualeda evitare è quello di aggiungere nuovi servizi, secondo un alogica sommatoria e non qualitativamente alternativa, all’attuale assetto istituzionale. E’ necessario affrontare nell’ambito della programmazione territoriale il problema della riconversione e riqualificazione professionale dell’Attuale personale manicomiale; è necessario approdondire la specificità tecnico-scientifca dell’intervento psichiatrico e definirne i contorni operativi e l’integrazione con gli altri ser4vizi teriitoriali. Questo insieme unitario e polivalente dovrà essere asolutamente autosufficiente nei confronti di qualsiaisi emergenza psichiatrica e intervento terapeutco, ponendo fine, nella pratica, al rinvio ad altre struttur separate”.

Si poneva, così, l’accento ad un’irganizzazione dei servizi caratterizzato da un aforte integrazione.

 

Durante il Reseau Internazionale del settembre del 1977, tenutosi a Trieste viene annunciata la chiusura dell’Ospedale Psichiatrico.

Nella relazione introduttiva si legge:

Oviettivo prioritario dei primi atti della trasformazione istituzionale divenne così la rocostruzione della persona e della sua identità sociale: spezzare tutte le norme che regolamentavano la dipendenza peersonale dell’internato; ricostruire la sua identità di persona giuridica; recuperare le risorseeconomiche indispensabili ad una collocazione nel circuito degli scambi sociali; porre le basi, irreversibili, del suo essere membro del corpo sociale. In altre parole sostituire al rapporto di tutela un rapporto di contratto”.

E’ evidente come la deistituzionalizzazione produca l’aumento della contrattualità sociale.

Il 13 maggio1978 viene approvata la legge 180, fotocopia delle esperienze avanzate, come la definisce Franco Basaglia.

Mi piace, tra gli innumerevoli commenti, riportare quello di Paolo Tranchina, comparso sul suo libro “Norma e antinorma”.

“L’antinorma che diventa norma, legge dello Stato, conferma le nostre battaglie, dà loro un senso politico preciso, ma la vittoria ci recupera alla normalità di codificatori, spiazzando la nostra negazione, spingendola per restare tale e antagonista verso battaglie che ancora non conosciamo…Perduto il ruolo di signori della follia in uno spazio chiuso e definito dove il nostro oggetto legato ci veniva portato da amministrare con parsimonia per la nostra sopravvivenza istituzionale, siamo ora esposti ad ogni incertezza su strade che non finiscono mai”.

Inizia così, una fase difficile, in cui i servizi più impegnati sul fronte antitstituzionale in molte parti d’Italia devono continuare a lottare contro la persistenza dei manicomi e nello stesso tempo devono inventare le nuove istituzioni.

La lotta contro il manicomio, soprattutto al sud  è intensa e faticosa. Bisogna opporsi ai padroni dei manicomi pubblici e privati, ai comitati d’affari, politicamente trasversali che speculano sulla pelle dei “poverimatti”. Non a caso PD sceglie di tenere il suo Convegno Nazionale  a Bari, nella cui provincia esiste, a Bisceglie, il manicomio privato più grande di Europa. Viene ribadita la ferma opposizione al manicomio e l’esigenza che i servizi, poveri di risorse, fragili sul piano contrattuale, siano adeguatamente potenziati.

Gli anni ’80 vedono così, affermarsi l’impegno per la costruzione dei nuovi servizi di salute mentale.

Gli operatori più attenti realizzano centri di salute mentale che non sono solo ambulatori, ma luoghi di incontro; che possano accogliere le persone, affinché stiano insieme e non solo per dare le medicine; si coinvolgono in iniziative di base per rendere più vivibili i quartieri degradati, entrano in carcere per curare i detenuti ed evitare i ricoveri in O.P.G.; mettono in atto forme di reale partecipazione della gente per programmare e gestire attività di socializzazione e riabilitazione, favoriscono la costituzione di cooperative di lavoro.

S registra, così, in quegli anni, un risultato straordinario: i familiari non chiedono più ricoveri, ma sempre più servizi aperti 24 ore, inserimenti lavorativi, centri accoglienti. La pratica reale, centrata sul riconoscimento delle persone titolari di diritti, muta radicalmente la domanda, che non è più caratterizzata da richieste istituzionalizzanti, ma dal desiderio di vivere una vita migliore.

 

L’enfasi sui diritti ha sempre caratterizzato la presenza nel sociale allargato i PD.

Proprio su questo tema si svolge il Convegno Nazionale di PD, a Bari, nel giugno del 1990.

Il titolo è : “I diritti negati”. L’attenzione ancora una volta è polarizzata su ciò che manca. Mancano gli operatori nei servizi, ma soprattutto manca il riconoscimento degli utenti come persone. Non sono accessibili il diritto alla casa, al lavoro, alla cura, alla cultura, alla possibilità di essere diversi, senza essere repressi.

Il sociale, allora, irrompe sempre più nella scena della salute mentale e i soggetti portatori di diritti, che progressivamente aumentano la loro contrattualità, costringono quegli operatori che non vogliono essere repressivi a cambiar pelle.

 

Da un’idea di cambiamento spesso legata solo alla militanza o al carisma di pochi passiamo ad un ruolo di facilitatori di processi, ad una pratica che ci vede nelle vesti di chi è più attento all’empowerment che all’applicazione di modelli predefiniti.

 

In questo senso, tante volte abbiamo fatto riferimento ad una pratica complessa dei servizi che offrisse ai soggetti più opportunità, più chances.

 

Tale pratica ha dei risvolti immediati su un terreno prettamente organizzativo e ben sappiamo come giustamente l’organizzazione sia stata sempre una nostra giusta e magnifica ossessione per poter fare e pensare in avanti.

Infatti:

·        tener presente che il ruolo di un servizio di salute mentale non può essere confinato all’interno della mera assistenza psichiatrica

·        valorizzare risorse e contributi  dei non tecnici

·        favorire tutte le iniziative utili ad evitare ogni forma di esclusione sociale,

comporta che coloro i quali ricoprono ruoli di responsabilità dei servizi siano meno capi e più guide.

 

Siamo, cioè, più interessati a liberare creatività ed espressività di chi lavora con noi che a convincerlo della bontà di un modello assistenziale, più a lavorare per costruire senso condiviso intorno alle cose che facciamo o vogliamo fare, che a prescrivere ricette per il ‘miglior servizio’.

Questo è stato possibile perché noi operatori e come PD nnon ci siamo sentiti dei reduci, una volta egemoni, ma ci siamo messi in gioco, nel confronto con chi era su posizioni difformi dalle nostre.

“Allora Psichiatria Democratica deve essere, per noi, l’interfaccia tra i servizi e la comunità intesa come l’insieme reticolare di persone portatrici di distinti bisogni.

Non più Psichiatria Democratica espressione delle problematiche legate solo alla salute mentale, ma cassa di risonanza di esigenze e conflitti in seno alla collettività; non più presente solo negli apparati vecchi e nuovi della psichiatria, ma dentro le situazioni dell’esclusione” - dicevamo questo a Vico Equense, nel nostro Congresso del novembre del 2000.

 

Mi piace citare, a questo proposito, Luciano Carrino, il quale, nel libro Psichiatria democratica Trent’anni, a cura di Paolo Tranchina e M .Pia Teodori, pubblicato dal Centro di Documentazione di Pistoia, afferma: “Mi accorgo che, in tanti anni, non sono mai stat altro che un professionista della lotta contro l’esclusione: Non era quello che volevo. M’interessavano i misteri della mente, le scoperte scientifiche, le invenzioni che creano ricchezza e benessere. E invece ho dovuto dedicare la maggior parte delle mie energie a combattere l’esclusione… Ma così facendo ho anche scoperto che, paradossalmente combattere l’esclusione è la via che porta a trovare molte soluzioni tecniche ai problemi su cui le professioni tradizionali si rivelano impotenti… “.

Questa posizione capovolge l’ottica corrente: quella che vede la “partenza” dell’intervento dallo specifico psichiatrico per allargarsi al sociale. Per questo è di grande interesse.

Chi si occupa di relazioni di aiuto dovrebbe chiedersi: cosa entra in gioco sul piano psichico individuale, quando si agisce per migliorare il sociale?

Per rispondere a questa domanda la riflessione sui legami sociali potrebbe essere di una certa utilità.

E sempre più evidente che la normalità definita dagli altri, come stato di benessere ordinato, levigato, depurato da scorie e protetta dal rischio di contaminazioni da parte della diversità si costruisca, nella società contemporanea, attraverso la cancellazione della dimensione sociale.

Più precisamente: per difendere più o meno consapevolmente la mia normalità, le cui caratteristiche sono dichiarate dagli altri, io devo utilizzare delle gabbie, che non sono quelle delle istituzioni totali, ma quelle del vivere quotidiano: di un’ideologia rigida, di un ruolo professionale ingessato, delle relazioni di coppia, di famiglia, di gruppo, in cui l’Altro, inteso come alterità non trova spazio. Il confronto, lo scambio quotidiano scompaiono, i legami sociali diventano più deboli e, alla fine, la mia disperazione più intensa.

La riflessione sulla rottura o dissoluzione dei legami sociali è sempre più al centro dell’attenzione nelle analisi del mal di vivere e come fattore favorente il disagio o il disturbo psichico.

Questo processo è visibilmente favorito da fenomeni macrosociali su scala globale: dalla separazione della produzione dell’insieme dei bisogni e dalla separazione del mondo della produzione da quello della riproduzione sociale.

Diventa allora decisivo da una parte rinunciare ad una sorta di “vocazione terapeutica” – come affermavano Basaglia e Gallio in un importante scritto di anni fa -  che parte da un’espropriazione della soggettività (attraverso l’ossessione della diagnosi per approdare al mito della guarigione), dall’altra diventa vitale per costruire o rinforzare legami sociali: connettere scambiare, costruire situazioni, relazioni, luoghi aperti (che possiamo anche chiamare “servizi”), dentro i quali sia possibile il riconoscimento dell’Altro; l’ascolto e l’incontro scevro da pregiudizi, in cui l’Altro sia visto come persona e non come malato, lungo la sua avventura umana aperta e non dentro lo spazio asfittico della sua malattia.

 

Per PD tale visione delle relazioni è fondamentale.

Per PD su questo si basano l’organizzazione, le strutture e le attività dei servizi di salute mentale.

Questi, a distanza di 25 anni dalla 180 continuano a soffrire dei problemi di sempre: carenza di risorse, scarso interesse da parte degli amministratori, bassa visibilità del lavoro degli operatori.

Allora:

1.   Non è possibile parlare di buone pratiche se i DSM non sono dotati di risorse sufficienti.

Certo, un servizio che abbia risorse sufficienti non significa automaticamente che sia un buon servizio. Non è possibile, però, che vi siano Dipartimenti di Salute Mentale (e sono tanti, soprattutto al Sud) che sopravvivano a stento con il 2- 2,5% del fondo sanitario e di questo la metà sia destinata al privato sociale oppure imprenditoriale.

 

  1. La situazione delle residenze e delle semiresidenze va rivista radicalmente, sia dal punto di vista degli ormai acclarati rischi e condizioni di cronicizzazione a vita della maggior parte dei pazienti, sia perché assorbono una quantità enorme, sproporzionata al bisogno, di risorse umane ed economiche. La politica degli appalti “chiavi in mano” (che comprenda, cioè, tutte le prestazioni) al privato sociale e a quello imprenditoriale deresponsabilizza il servizio pubblico, mortificandolo nel ruolo di una sommatoria di ambulatorietti di psichiatria e di repartini ospedalieri.

 

3.        Vanno realizzate forme alternative di residenzialità (ad esempio case anche per gravi)   supportate 24 ore su 24 dai servizi territoriali; va costruito e sviluppato l’affido eterofamiliare dei pazienti psichiatrici, con sostegno formativo ed economico alle famiglie da parte del servizio pubblico.

 

4.        Va sviluppata la presenza degli operatori della salute mentale nei Distretti Socio-sanitari, insieme alla collaborazione con i medici di medicina generale nella gestione non solo nella crisi ma anche delle persone che necessitano di lungoassistenza.

 

5.        E’ necessario intervenire nelle scuole, nelle parrocchie, nei centri sociali e in tutti i luoghi di aggregazione per combattere ogni pregiudizio verso le persone con sofferenza psichica, che ancora è sorprendentemente presente negli strati anche più avvertiti della popolazione. Decisiva, allora appare ogni forma di collaborazione con gli organi di informazione.

 

6.        Bisogna realizzare concretamente forme di gestione della crisi che non sia necessariamente il ricovero in SPDC. In questo senso si sono rivelate di grande efficacia esperienze di intervento e trattamento domiciliare sulle 24 ore o di Centri di Salute Mentale, dotati di posti- letto funzionanti 24 ore.

 

7.        E’ necessario rifiutare con fermezza, senza se e senza ma, ogni forma di contenzione meccanica e farmacologica e la pratica dell’elettroschock. Da sempre questa è stata una chiara discriminante di Psichiatria Democratica e deve continuare ad esserlo.

Ci opporremo con ogni mezzo a chi vuol legare i pazienti a letto, ritenendo questa pratica illegale, senza mezzi termini.

 

8.        E’ necessario occuparsi dei disturbi psichici agli esordi e, quindi, diventa indispensabile collegarsi e collaborare con i servizi che si occupano dell’infanzia e dell’adolescenza.

 

9.        I programmi riabilitativi devono essere fortemente personalizzati. L’inserimento lavorativo, obiettivo cui tendere costantemente, non può essere effettuato esclusivamente dei servizi di salute mentale: hanno possibilità limitate. E’ necessario coinvolgere fin dall’inizio del progetto imprenditori, associazioni di categoria, sindacati. Utile, inoltre, nelle realtà in cui si è realizzato, si è dimostrato il servizio di accompagnamento al lavoro. D’altra parte, per persone con gravi disabilità il lavoro sarebbe una realtà impossibile e l’aspettativa frustrante per tutti. Per loro, dunque, bisogna pensare ad attività non necessariamente produttive, ma che li facciano star bene insieme agli altri. PD ritiene che le esperienze di impresa sociale vadano sostenute e moltiplicate su tutto il territorio, chiedendo aEnti pubblici di riservare una quota parte degli appalti alle Cooperative di Tipo “B”.

 

10.    Le persone ricoverate in O.P.G. e i detenuti con problemi psichici sembrano essere persone dimenticate dalla maggioranza dei servizi di salute mentale: sono cittadini come lui altri e al pari gli altri hanno diritto alle cure. Per chi è in carcere è necessario applicare la legge n.230; per chi è in O.P.G. bisogna trovare forme alternative di trattamento e rilanciare la revisione del Codice Penale per quanto riguarda u reati commessi dai malati mentali.

 

11.    Va sviluppato un reale lavoro di rete sociale. Pochi servizi di salute mentale in Italia lo sanno fare. Pochi sanno esplorare le reti esistenti, crearne nuove, valorizzare le reti naturali (amici, parenti, vicini di casa, ecc.). E’ necessario allora imparare come si fa, anche dagli altri, sottraendoci alla tentazione di proporre/imporre i nostri modelli assistenziali. E’ questa la condizione necessaria per sviluppare davvero una salute mentale di comunità, che valorizzi gli utenti e i familiari come protagonisti, i volontari e i non professionisti come vere risorse umane e non come operatori di serie Z, guardati con sufficienza e scarsa attenzione dagli operatori dei servizi in pianta organica.

Anche “l’integrazione con i servizi socio-sanitari”, affinché non sia uno slogan insignificante, va caratterizzata da pratiche di collaborazione e di coinvolgimento di altre figure professionali al di fuori della psichiatria.

 

12.    E’ necessario implementare metodologie partecipative sia tra gli utenti che tra gli operatori.

Riteniamo che tali pratiche sia davvero antagoniste rispetto ad una tendenza verticistica della attuale gestione del potere, espressione di un assetto istituzionale aziendalistico. Il management dell’Azienda Sanitaria, come da tanti è stato osservato, essendo un ibrido, dal punto di vista normativo e giuridico, tra pubblico e privato, da una parte è tendenzialmente autoritario nei confronti degli operatori, dall’altra, soffrendo ancora di vincoli burocratici,  è scarsamente efficace rispetto alle procedure e ai risultati.

L’effetto finale è un irrigidimento dei rapporti gerarchici, che lascia poco spazio al dissenso, alle critiche costruttive, alle proposte. Ridotte al minimo le possibilità decisionali, la motivazione al lavoro diventa scarsa. Accade esattamente l’opposto di quello che si era prefisso un’organizzazione su base aziendale: di raggiungere gli obiettivi in modo rapido, efficace, ottimizzando le risorse.

Aprire spazi di discussione tra operatori, tra utenti, familiari e operatori; coinvolgerli, non solo sulla carta, nella programmazione e nei processi decisionali significa riconoscere che la gestione di un servizio non può prescindere dalle indicazioni e dalle domande degli utenti e dei non tecnici. Significa dar vita ad una “invenzione collettiva” (Pirella, Castelfranchi, Henry).

 

In Italia si contano a centinaia le esperienze innovative ed è giusto ed importante che vengano conosciute.

Esistono servizi di salute mentale che sono veri luoghi accoglienti, dove ascolto e rispetto sono la norma; centri diurni che sono spazi di aggregazione per tante persone e non solo per malati mentali; dipartimenti di salute mentale che favoriscono enormemente la nascita e la crescita di cooperative sociali di utenti psichiatrici; case- famiglia e gruppi - appartamento di piccole dimensioni perfettamente inserite nel contesto urbano; attività riabilitative, ludiche, culturali, di preformazione  lavorativa che aiutano molto utenti e familiari a sentire meno il peso del disagio; gruppi di mutuo- autoaiuto di pazienti e associazioni di familiari che fanno della solidarietà e della collaborazione con i servizi i loro punti di forza; iniziative di promozione della salute mentale con le scuole, le associazioni; protocolli di collaborazione con i medici di medicina generale per la terapia e la prevenzione dei disturbi psichici. E tanto altro ancora.

Se ne sa ancora molto poco. Gli organi di informazione, sempre più impegnati alla spettacolarizzazione delle notizie, sono poco interessati al lavoro, spesso oscuro, di tanti operatori della salute mentale, che pazientemente stanno con gli utenti, li ascoltano, cercano di comprenderli fanno qualcosa per loro.

 

Appare evidente, allora, che ancora una volta, dobbiamo mettere in discussione ciò        che abbiamo costruito, seconda la nostra migliore consuetudine di aprire e stare dentro le contraddizioni.

Si tratta di modificare profondamente strutture ed organizzazione che proprio noi, con forza abbiamo voluto anni fa.

Tutto questo per scongiurare il rischio reale che le case famiglia diventino dei cronicari, i centri diurni dei ghetti, i Centri di Salute Mentale dei miseri ambulatori, i Servizi di Diagnosi e Cura dei reparti chiusi di manicomio.

Per far questo è necessario aprirsi al mondo.

 

In questa direzione molto feconda può dimostrarsi il rapporto di PD con i movimenti, per la carica di radicalità di cui sono portatori.

 

“E’ una questione di arricchimento reciproco – ci scrivono Di Vittorio e Genchi, che ora si trovano come rappresentanti di PD al Social forum di Parigi- che richiede uno spazio politico non gerarchizzato, rapporti orizzontali dove non ci sono né punti di vista superiori né lotte politiche più importanti delle altre. Partendo dalla questione dei CPT, Psichiatria Democratica intende costruire un rapporto “critico” con i movimenti, un’alleanza fondata sulla disponibilità a farsi attraversare dall’altro, facendosi spiazzare, provocare, contestare dalle sue domande, senza per questo rinunciare alle proprie; sulla capacità di costruire ogni volta piani di riflessione e di lotta più ampi, nei quali storie e culture diverse possano articolarsi senza dissolversi l’una nell’altra; sulla consapevolezza che questa costruzione non si fonda né su una verità trascendente o immanente, né su una necessità storica, ed è percio’ ricca e fragile come un evento”.

 

Dalla lotta al manicomio, abbiamo imparato, al contempo, la necessità del conflitto e della mediazione: di occupare gli interstizi delle istituzioni, scegliendo di volta in volta di funzionare da cuneo per romperne le logiche cristallizanti e cronificanti o da collante per depolarizzare le situazioni di contrasto: pazientemente.

 

Tale scelta di fondo dà conto dello “stile di PD”: radicalità sulle opzioni di fondo senza compromessi per quanto riguarda i diritti e la dignità delle persone, diuturno  e faticoso lavoro all’interno delle istituzioni per cambiarne ruolo e funzioni.

 

Per tali ragioni, vogliamo confrontarci in questo convegno sia con le associazioni sia con gli amministratori, e con i movimenti e con le istituzioni.

 

Il lavoro di rete condotto in questi anni, spostando l’attenzione oltre lo specifico, verso la comunità ci ha indicato nuovi ambiti di intervento:

ù        il sistema sanitario.  Il pregiudizio nei confronti dei “matti”, nel mondo della sanità e dell’assistenza ha sempre costituito un enorme problema per gli utenti psichiatrici, per i loro familiari, per gli operatori dei servizi. In particolare il sistema ospedaliero, con le sue regole rigide, ha tendenzialmente espresso difficoltà nel rispettare il diritto del malato psichico a ricevere la normale assistenza. Diventa urgente lavorare all’interno dell’istituzione ospedaliera, per incrementare il livelli di tolleranza.

ù        l’ambiente. Non è possibile immaginare un miglioramento della qualità della vita, senza porre l’accento sull’importanza di un ambiente che garantisca l’equilibrio tra natura e cultura. Nei ghetti delle periferie urbane degradate, nei centri storici spopolati e abbandonati, più difficilmente si verificheranno condizioni di vita tali da produrre benessere psicologico.

ù        le scuole. Sarebbe vera prevenzione se creassimo relazioni stabili con le scuole, gli insegnanti, i ragazzi stessi, non a caccia del diverso ma come offerta di disponibilità all’ascolto

ù        le fabbriche. Sono sotto gli occhi di tutti i guasti sul piano psicologico provocati dalla fabbrica cosiddetta “just in time”. Sotto le mentite spoglie del senso d’appartenenza dell’operaio all’Azienda si celano ritmi massacranti, qualitativamente diversi da quelli della fabbrica fordista, ma altrettanto impegnativi e assorbenti, perché non permettono tempi morti. Ma è soprattutto il senso della continua precarietà lavorativa e della fine del sistema di garanzie legate al diritto al lavoro a creare un senso di insicurezza per il futuro anche per i cosiddetti “garantiti”.

Una frontiera per PD è la lotta contro i Centri d Permanenza temporanea per Migranti. E’ nuova solo per motivi cronologici, è antica in quanto i CPT sono istituzioni totali e assommano le caratteristiche dei manicomi a quelle delle carceri. Il migrante che è rinchiuso, però, non ha commesso reati, né è folle.  Quindi i CPT sono una vera ingiustizia. Da combattere e da chiudere.

 

La lotta all’Ospedale Psichiatrico Giudiziario deve continuare.

PD condivide la posizione di chi vuol rivedere il Codice Penale, considerando imputabile il malato di mente che ha commesso il reato, prevedendo un’assistenza psichiatrica dignitosa in carcere, come previsto dalla normativa vigente.

Il dibattito è ancora aperto, ma in attesa della nuova normativa i servizi psichiatrici non possono ignorare il problema: magistrati intelligenti in molti casi hanno deciso di applicare la misura di sicurezza nelle strutture residenziali psichiatriche. I servizi devono essere pronti ad accogliere queste persone.

 

La strada contro l’esclusione e il pregiudizio è ancora lunga. Non è vero che i manicomi sono finiti, così come pensano molti giovani, insieme ai loro cattivi maestri.

Questa concezione è molto pericolosa, perché alimenta tecnicismi e letture parziali del disagio.

Si pone, allora, molto urgente il problema della formazione delle nuove generazioni, che a stento sanno chi è Franco Basaglia. PD si è assunto anche questa responsabilità e si è costituia in ONLUS nell’ottobre del 2001, proprio con l’intento di fare formazione: una formazione critica, che parta continuamente dall’analisi delle istituzioni che escludono o che camuffano meccanismi di esclusione.

Un formare che serva a trasformare: la nostra professione, i servizi, la realtà i cui viviamo.

 

Noi di PD lasciamo ad altri l’ossessione dell’affermazione del proprio ruolo professionale tout- court, giudicando tale operazione senza respiro culturale; in fondo miserevole.

Anche il dibattito sulla specificità della psichiatria non ci appassiona. Siamo consapevoli che la cosiddetta malattia mentale è una condizione umana e come tale va assunta, ascoltata, se possibile, compresa.

Rifiutiamo l’idea di far coincidere la forma del malato con lo stampo precostituito della diagnosi.

Di qui l’affermazione della nostra radicalità: riconoscere l’altro come soggetto, “libero da ogni etichetta con cui la società ne ha finora codificati il ruolo e non è ancora sopraffatto da quella che sta appunto progettando per lui;” (Basaglia); riconoscere “le ragioni della non ragione”, come diceva Vieri Marzi, a cui va il nostro pensiero commosso.

 

La storia di Psichiatria Democratica è una storia d’Amicizia, per questo dura da trent’anni. Condividere, scontrarsi, perdersi, ritrovarsi,e riconoscersi. Una storia fatta di nostalgie e di progetti, di entusiasmi e di ritiri, di piatta quotidianità e di utopie possibili, di politica, di cambiamenti, di stop improvvisi e ripartenze rapidissime.

Di passioni.

Proprio come le storie d’amore che non finiscono mai.

 

 

Matera, 13 novembre 2003