PSICHIATRIA DEMOCRATICA

Le nuove frontiere delle Istituzioni Totali. I centri di permanenza temporanea per migranti. (Convegno nazionale di PD, 13-14-15 novembre)

 

Di Anna Simone ( Sociologa. Gruppo monitoraggio Cpt- Tavolo nazionale migranti dei Social Forum)

 

 

1. Dall’accoglienza alla reclusione

Hanno vari nomi e varie declinazioni (a seconda che ci si sposti in Francia, Germania, Inghilterra), dappertutto, però, l’istituto giuridico che li regge si chiama “detenzione amministrativa”. Sono ubicati nelle metropoli, sulle coste, sulle isole, negli aereoporti, nelle stazioni ferroviarie, nelle zone gestite dall’esercito e “servono” per “trattenere” i migranti senza visto, senza permesso di soggiorno, senza lavoro, senza speranza, senza niente. Sono “spazi striati” ma anche spazi che passano per essere “accoglienti” o extra-territoriali che contengono, non a caso, extra-comunitari.

Spazi a parte per persone a parte che dicono di un al di là anche del tempo perché il migrante lì dentro non fa nulla, aspetta solo di essere espulso o rimpatriato, aspetta solo che qualcuno gli dia un nome, un cognome, un luogo di provenienza e basta: è l’eterno nella logica del “nostro” tempo e della “nostra” delimitazione spaziale e culturale. Un eterno senza speranza, senza gioia, senza divenire, senza libertà, costruito ad hoc per contenere la miseria del mondo, per identificarla, per espellerla. Sono i centri di permanenza temporanea, i centri d’identificazione per richiedenti asilo, i centri di smistamento, le zones d’attente che in tempi diversi e in diversi paesi hanno legalizzato l’accoglienza trasformandola in reclusione.

La povertà che da sempre investe le sorti di gran parte della popolazione del mondo, ha conosciuto il colonialismo o l’abbandono a seconda dei luoghi e dei casi, oggi conosce anche la reclusione. Né prima, né ora i migranti commettono reato, infatti spostarsi da un luogo all’altro in cerca di una vita migliore non può essere un atto perseguibile penalmente, eppure a loro, una volta sbarcati, spettano le spranghe alle finestre, il filo spinato, i muri alti, le telecamere, la polizia dappertutto.

I centri di permanenza temporanea, in Italia, sono stati istituiti dalla legge 40 del 1998 o, meglio, da un decreto d’urgenza divenuto legge che ha trasformato l’accoglienza e l’ospitalità in reclusione, all’interno di un quadro politico più generale che, da una parte costruisce forme di allarmismo sociale attraverso i media e dall’altra, sempre attraverso i media, trova delle soluzioni basate su un nuovo modo di gestire i “flussi migratori”, su una nuova ideologia di massa chiamata “sicurezza” o, nel nostro caso specifico, “provvedimento temporaneo di detenzione amministrativa per ragioni di ordine pubblico”.

L’istituzione di questi luoghi, antropologicamente leggibili anche con le categorie che hanno permesso l’istituzione del sistema dell’Apartheid in Sud-Africa  ha un duplice scopo: impedire il principio di libera circolazione delle genti e ricostruire lo stato-nazione[1] sulla base della logica dentro/fuori  e della differenza tra cittadino e straniero. Recita così l’art. 12 della legge 40 del 98: “Quando non è possibile eseguire con immediatezza l’espulsione mediante accompagnamento alla frontiera ovvero il respingimento, perché occorre procedere al soccorso dello straniero, accertamenti supplementari in ordine alla sua identità o l’indisponibilità del vettore o altro mezzo di trasporto idoneo, il questore dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario presso il Centro di permanenza temporanea più vicino, tra quelli individuati o costituiti con Decreto del ministro dell’interno, di concerto con i ministri per la solidarietà sociale e del tesoro, del bilancio e della programmazione economica”.

Un provvedimento statale e governamentale che, però, non tiene conto dei mondi dell’altro, della possibilità di dirsi, di raccontarsi, dei desideri altrui, del sé civile e politico, di una società che, in quanto tale, non può essere cristallizzata all’interno di una delimitazione territoriale. Un provvedimento che non accoglie più ma reclude attraverso un meccanismo di induzione ad “essere” soltanto un nome, un cognome, una lingua specifica, un’identità, né un divenire minore, né una soggettività non assoggettata, né una persona. Ed è proprio su quest’ultimo punto che va in cortocircuito l’utilizzo della “detenzione amministrativa”. Quest’ultima non essendo appunto penale non può essere utilizzata violando la libertà personale, così come è scritto in uno dei principi fondamentali della nostra Costituzione. “La libertà della persona è inviolabile”, della persona quindi e non del cittadino o del non-cittadino.

Ma adesso cerchiamo di capire e di problematizzare il contesto entro il quale nasce e si sviluppa questo tipo di meccanismo di detenzione e di segregazione dell’altro.

I centri di permanenza temporanea non sono carceri perché in essi si applica la detenzione amministrativa, come abbiamo già detto: e allora cosa sono e da dove viene l’idea di istituire questi luoghi recintati?

 

 

2. L’enigma del nome e l’isterismo sicuritario

Da un po’ di anni sociologi e non parlano di sicurezza e rischio nella duplice accezione del termine. Il bisogno di sicurezza dei diritti da una parte, logica conseguenza del postfordismo e della fine o del logorio progressivo delle politiche del Welfare e, dall’altra ciò che chiameremo “isterismo sicuritario”. Con quest’ultimo termine intendo nominare tutte le politiche che hanno scelto la strada della Tolleranza Zero e della repressione in merito alle nuove figure della marginalità sociale. Tale forma di governamentalità è in continuità con il progetto politico neoliberale e globale che, controriformando, ricostruisce o istituisce ex-novo le sacche di contenimento dell’eccedenza umana. Oltre lo Stato sociale c’è lo Stato penale, oltre quest’ultimo c’è lo Stato emergenziale o d’urgenza che si misura quotidianamente attraverso l’uso di dispositivi di potere di tipo “gestionale” che controllano e disciplinano il diverso “segregandolo” sino alla normalizzazione dell’urgenza compiuta attraverso l’esercizio del potere legislativo.  Anziché allargare la sfera dei diritti, quindi, si usano politiche fondate sulla prevenzione stessa del rischio apportando la tesi secondo cui un immigrato in quanto tale può essere un potenziale esponente delle nuove forme di “pericolosità sociale” ed in quanto tale deve essere detenuto prima di essere espulso. E’ sufficiente vedere la Legge Bossi-Fini, così come il ddl Burani-Procaccini o ancora il ddl Fini-Prestigiacomo-Bossi in materia di prostituzione per capire la linea di continuità del nuovo progetto politico neoliberale.

Questo “isterismo sicuritario” che con la Bossi-Fini istituisce sempre più  centri di permanenza temporanea per i migranti ma anche per i richiedenti asilo, che nomina e produce la “devianza” è il potere disciplinare di cui anni fa ci ha parlato Foucault,  che oggi mantiene alcuni elementi della stessa società disciplinare ed alcuni elementi della società di controllo. I provvedimenti eccezionali che diventano “normali” connotano anche l’esistenza di figure eccezionali che non possono essere immediatamente normalizzate attraverso il permesso di soggiorno, oggi legato anche al contratto di lavoro, epperciò il migrante non potendo essere “integrato” o “assimiliato” non può che essere temporaneamente trattenuto, nominato, identificato ed espulso o rimpatriato.

I migranti non sono “normali” né normalizzabili in massa e, quindi, vanno altrettanto “normalmente” reclusi e assistiti, prima di essere rimandati a casa.. In sintesi ciò che chiamano assistenza è un eufemismo. Non è un caso che la cooperativa che “gestisce” il Cpt di Lampedusa si chiami “Misericordia”  e percepisca una retta giornaliera per migrante trattenuto che va dai 30 ai 45 euro, idem per quel che concerne la gestione del Regina Pacis di Lecce e via di seguito. I migranti, quindi, non hanno commesso nessun reato penale ma non possono uscire dal centro come se di fatto stessero in carcere (senza godere, però, dei diritti di cui gode il carcerato), non sono “folli” ma se si ribellano o commettono atti di autolesionismo possono essere curati con gli psico-farmaci, eppure non sono in un manicomio o in un ospedale psichiatrico e tutto questo perché a loro, in quanto “razza clandestina” non è concesso fare società, vengono puniti per quello che sono e non per quello che fanno.

E’ questa negazione di principio, questo potere diffuso che si concretizza anche nella modalità di gestione dei centri a farci sostenere la tesi secondo cui questi luoghi hanno una funzione meramente “repressiva” nei confronti dell’immigrazione “clandestina” (anche se non c’è immigrazione senza clandestinità).

La repressione si concretizza attraverso delle Leggi fatte sull’onda di uno stato d’emergenza permanente ma, come sappiamo, un Decreto d’urgenza ha un valore temporaneo esiguo mentre una Legge disciplina e normalizza qualsiasi forma di situazione sociale, politica o economica. Si surcodifica e si demonizza “l’immigrazione clandestina” ma si costruisce, parallelamente, l’immaginario umanitario dell’accoglienza senza dire, di fatto, che si chiama “detenzione amministrativa”, cioè “reclusione temporanea”. Come fare, allora, per sciogliere l’enigma del nome centro di permanenza temporanea e di assistenza? Non sono lager perché non si contengono i migranti per poi sterminarli, non sono carceri perché in esse si applica il diritto penale chè è altro dalla detenzione amministrativa, sono sicuramente degli apparati di cattura perché codificano la volontà statuale tramite una legge e sono sicuramente dei luoghi la cui spazialità viene delimitata da muri, filo spinato, video-camere e polizia, inoltre di lì un migrante non può uscire e un cittadino qualunque non può entrare, è concesso solo ai parlamentari.

Sono sicuramente, come direbbe Goffman ma come direbbe anche Franco Basaglia, delle istituzioni totali che delimitano una parte del territorio costruendo una logica sociale di tipo binario: un dentro, un microcosmo sociale “formalmente chiuso ed amministrato” ed un fuori formalmente aperto e ugualmente amministrato ma tramite regolari elezioni, in un regolare paese democratico. Le istituzioni del fuori aperto e regolarmente amministrato sono semplici luoghi attraversabili da tutti, le istituzioni totali, invece, impediscono qualsiasi forma di scambio sociale e qualsiasi uscita verso il mondo esterno e non sono attraversate da tutti. Impediscono, in sintesi, che si possa fare società. E la società contemporanea, si sa, non può essere pensata come un contenitore cristallizzato dotato di un’organizzazione simile a quella che sono in grado di  darsi le formiche. La società si fa solo se in essa vi sono gli individui e ogni individuo non può che essere contemporaneamente una singolarità ed una molteplicità di istanze e desideri. A meno che la società stessa non decida di auto-rappresentarsi attraverso una costruzione identitaria per identificare e classificare anche l’altro. E infatti, come sostiene Goffman:

 

 

Nelle istituzioni totali c’è una distinzione fondamentale fra un grande gruppo di persone controllate, chiamate opportunatamente “internati”, e un piccolo staff che li controlla. Gli internati vivono generalmente nell’istituzione con limitati contatti con il mondo da cui sono separati, mentre lo staff presta un servizio giornaliero di otto ore ed è socialmente integrato nel mondo esterno...

 

 

La differenza netta tra il mondo dell’internato ed il mondo dello staff spiega a chiare lettere cosa è un centro di permanenza temporanea. A questa affermazione, però, dobbiamo aggiungere un ulteriore tassello di problematizzazione: mentre l’attore sociale chiuso in carcere ha avuto modo di attraversare la società, così come il “folle” prima di essere stato rinchiuso nell’ospedale psichiatrico, il “clandestino” viene rinchiuso e trattenuto a priori, viene, cioè, escluso e detenuto per ciò che è, senza avere la possibilità di fare società. L’unico contatto con il fuori di un migrante detenuto in un Cpt, per un tempo che va sino ai 60 giorni con la Legge Bossi-Fini, è rappresentato da una scheda telefonica che gli viene concessa ogni settimana e che può utilizzare tramite gli appositi telefoni del centro. Ma una società che binarizza così rigidamente il mondo del cittadino dal mondo dello straniero, il regolare dal clandestino, e all’interno dei Cpt ripropone la stessa logica differenziando il mondo dello staff dal mondo dell’internato, trasformando l’accoglienza in reclusione, dove va se non verso una totalizzazione del sé ed una totalizzazione dell’altro impedendo, di fatto, qualsiasi processo di trasformazione? Impedendo che possano esservi degli interstizi, degli attraversamenti, dei mutamenti del sé e della società?

Ecco svelato l’enigma del nome: il nome del clandestino, il nome della società (disciplinare e di controllo), il nome del centro. Il nome ovvero l’identità.

 

 

 

 

3. Cosa accade alle persone lì dentro?

Goffman non ha fatto “dell’umanitarismo” quando ha spiegato quali possono essere i processi di mortificazione del sé all’interno di un’istituzione totale. Ha solo spiegato come ci si può sentire all’interno di un luogo chiuso e delimitato presso cui si diventa un’identità altrettanto chiusa e delimitata. Le persone che attraversano i Cpt hanno già un nome , una storia e dei desideri quando arrivano sulle nostre coste a cui si aggiungono le speranze e il desiderio di un futuro migliore il quale, però, viene numerato e negato improvvisamente. Il migrante lì dentro è uno scomparso, scomparso dalla società di provenienza, scomparso per la società di accoglienza, la sua identificazione è finalizzata solo ad un provvedimento di espulsione o di rimpatrio.

Il Cpt, come nella migliore tradizione delle istituzioni totali, si basa su una logica duale e binaria che comporta l’esistenza di un “mondo dell’internato” e di un “mondo dello staff” che gestisce e amministra gli scomparsi. E le istituzioni totali, come ha sostenuto Goffman, sono dei luoghi basati su strumenti di controllo e di identificazione coatta dell’internato che attivano, in quanto tali, una serie di procedure emozionali tese a piegare la personalità dell’internato stesso sino a depotenziarla per evitare che possano esservi rivolte e problemi di “amministrazione” nel centro.

I processi di riduzione del sé all’interno delle istituzioni totali e quindi anche dei Cpt sono quasi sempre legati a processi di “mortificazione” del migrante non-attore sociale il quale può solo essere “assistito” come si fa con i “folli” o i “malati” in genere, senza poter avanzare nessun tipo di istanza individuale. Ciò accade innanzitutto perché le istituzioni totali come primo atto d’esistenza erigono una barriera rigida e netta tra il mondo dell’internato ed il mondo del “fuori”  imponendo all’ individuo “un ciclo di vita giornaliero che egli considera estraneo”. La “comunitarizzazione” indotta e forzata a cui sono costretti i migranti nei Cpt porta inevitabilmente ad alcuni ordini di problemi. Il mondo dello staff volontariamente o involontariamente tende a de-potenziare il migrante, ad annichilire il suo mondo ed il suo modo di stare al mondo perché costringe ad una ghettizzazione temporanea basata su un regolamento deciso in base alle esigenze dello stato e delle leggi senza tener conto dell’altro. Così facendo il dell’internato viene “razionalizzato” , addolcito e addomesticato in modo tale da non creare problemi, il sé del migrante diviene subalterno ai meccanismi di dominazione e assoggettamento nello spazio ristretto del Cpt. L’impotenza del migrante internato, prima ridotto allo stremo dal viaggio e poi recluso nel Cpt porta all’attivazione di un processo di annientamento del civile e politico .

E’ sufficiente entrare in un Cpt o in un altro tipo di centro simile, anche solo per un giorno,  per verificare il “funzionamento” di questi meccanismi legati alla negazione della vita del migrante e delle sue istanze, è sufficiente anche qualche ora per verificare quanto “gli ospiti” siano, di fatto, vittime di un nuovo processo di colonizzazione “sul posto”. Se volessimo attualizzare il famoso testo di Franz Fanon,  I dannati della terra, potremmo spiegare meglio cosa può accadere ad un migrante colonizzato questa volta in occidente. Ha scritto l’autore: “Poiché è negazione sistematizzata dell’altro, decisione forsennata di rifiutare  all’altro ogni attributo d’umanità, il colonialismo costringe il popolo dominato a porsi continuamente la domanda : chi sono io in realtà?”. La nascita di forme di patologia mentale legate a meccanismi di oppressione ed assoggettamento le conosciamo tutti, la psichiatria clinica le ha chiamate “psicosi reazionali” e si concretizzano in atti di autolesionismo o in forme di ribellismo estremo. Nei Cpt avvengono quotidianamente ma nessuno può parlarne perché nessuno può entrarci e anche quando le notizie filtrano superando la soglia di quei muri e di quei fili spinati il tutto viene sempre e prontamente giustificato dai gestori degli stessi centri. Più volte, infatti, Don Cesare lo Deserto, gestore del Regina Pacis, ha sostenuto la tesi secondo cui i casi di autolesionismo sono solo stratagemmi usati dai migranti per essere portati in ospedale, luogo da cui è più facile fuggire. Siamo tra la violenza della Legge e la negazione dei diritti fondamentali, tra un utilizzo penale della sanzione amministrativa che viola la libertà personale e la negazione meccanica delle emozioni e dei desideri altrui, tra gli effetti perversi di certo umanitarismo e le logiche del business dello stesso “lavoro umanitario”. Non dobbiamo dimenticare mai che quasi tutti i migranti che arrivano sulle nostre coste spendono tutti i loro averi per  raggiungerle, non dobbiamo dimenticare mai i loro sguardi, quei numeri appesi al collo, quelle lacrime, quella disperazione senza prima avere avuto la pazienza e la correttezza di chiederci perché. Da cosa e da chi dipende così tanta disperazione.

 

 

 

 

4. Lampedusa, isola di un’isola, terra di confine e di confino.

Lampedusa è l’estremo sud d’Italia, l’estremo sud della Sicilia, l’estremo sud dell’Europa. E’ contemporaneamente luogo di confine e luogo di confino, luogo abbandonato e luogo presso cui vengono abbandonate le persone provenienti da altri luoghi, una volta venivano mandati lì gli “eretici”, quelli che si ribellavano al fascismo oppure i mafiosi, oggi quest’isola è balzata agli onori della cronaca perché vi arrivano i migranti, nonostante la Legge Bossi-Fini, nonostante gli accordi con la Libia. E’ un simbolo Lampedusa, un simbolo della confusione che continua a regnare intorno alla “gestione” dei flussi migratori ed un simbolo della negazione della specificità del Mediterraneo inteso come spazio di circolazione, così come era stato definito da Braudel un po’ di anni fa. Ma Lampedusa è un simbolo anche per chi chiede la chiusura dei Cpt, perché in quest’isola di un isola ne è stato creato uno nel ’98, uno dei primi, il fiore all’occhiello dell’allora Ministro Bianco. Noi ci siamo andati quest’estate, ci siamo entrati.

Il centro di Lampedusa ha cambiato nome più volte, a seconda delle emergenze e del numero degli sbarchi. E’ collocato nella zona aereoportuale dell’isola, accanto, in basso. Dal centro si vede l’aereoporto, dall’aereoporto non si vede il centro. Il muro che lo circonda è di colore giallo canarino, il cancello è verde. Prima di arrivare al secondo cancello dentro il quale sono detenuti gli immigrati si attraversa un piccolissimo viale con qualche albero. Adesso il suo nome contiene più diciture di più tipologie di centri: Centro di permanenza temporanea e di prima assistenza. Ciò significa che gli immigrati possono essere detenuti sino a sessanta giorni lì ma possono anche essere smistati in altri luoghi dopo una prima assistenza post-sbarco. E’  gestito dalla cooperativa Misericordia, una confraternita con finalità di lavoro umanitario nata nel ‘700 in Toscana  e successivamente diffusasi in Italia. Quelli che lavorano con la confraternita sono tutti laici e possiedono titoli di studio di varia natura: geometri, ragionieri ma ci sono  anche  dei medici e degli avvocati. Infatti la gestione del Cpt di Lampedusa  affidata al geom. Scalia, che tutti però chiamano “dottor Scalia”, così come accade anche per qualche altro centro, è totale e auto-centrata sulla figura del gestore o del “responsabile”,come viene definito in gergo. Il responsabile, una volta stipulata la convenzione con la Prefettura di riferimento che deve comunque monitorare il lavoro e la situazione nei centri, assume i cuochi, i medici (quasi tutti neo-laureati che non prestano servizio presso le A.U.S.L). La questura di riferimento, invece, deve occuparsi delle udienze agli immigrati non appena arrivati nel centro (i quali non sempre vengono informati della possibilità di poter chiamare un avvocato per fare ricorso o per chiedere l’asilo). Ogni centro ha un regolamento suo interno, quello del Cpt di Lampedusa prevede solo una serie di obblighi che hanno gli immigrati nei confronti del gestore e dei suoi compagni nel centro ma non spiega che essi, in quanto persone, possono anche avere dei diritti. Gli immigrati vengono suddivisi per etnie all’interno dei moduli abitativi di alluminio del centro, vengono suddivisi per “stigma” avrebbe detto Goffman. Su una superficie di 4000 mq vi sono 4 moduli abitativi di dimensioni diverse che contengono solo dei letti a castello e degli armadietti di alluminio, i materassi sono di spugna. Il cpt ha 190 posti. C’è una tenda con la mensa, un ambulatorio (aperto dalle 16.00 alle 18.00) con 8 medici che si alternano. Nell’ambulatorio ci sono tutte le tipologie di farmaci tra cui anche diversi psicofarmaci che vengono prescritti dal medico generico, a volte per stanare i tentativi di rivolta, a volte per evitare i casi di autolesionismo: tavor, talufen, aldol gocce, lexotan, valium. La psicologa prevista dalla convenzione non c’era quando siamo entrati, più tardi scopriremo che il “dott. Scalia” ha sempre percepito quei soldi senza averla mai contattata o meglio l’ha fatto dopo la nostra denuncia alla Prefettura di Agrigento. Gli immigrati hanno diritto ad avere una scheda telefonica di 5 euro ogni dieci giorni, qualsiasi loro movimento è controllato oltre che dalle videocamere interne ed esterne al centro anche dalla polizia e dai carabinieri del luogo. Nel centro entrano dei mediatori culturali dell’associazione Acquarindo di Agrigento che a sua volta gestisce un centro di seconda accoglienza a Recalmuto per richiedenti asilo in attesa di giudizio. Essi informano sulla possibilità di richiedere l’asilo. Alla domanda: come fate? Il mediatore culturale stesso, Jamel, ci ha detto che  informa del diritto d’asilo o del diritto ad avere un permesso umanitario distinguendo gli arrivanti sulla base della lingua, dell’accento e del colore della pelle, ciò vuol dire che a priori i tunisini, i marocchini o i provenienti da qualsivoglia altro paese non in guerra, anche se sotto un regime monarchico o dittatoriale non possono, per lui, nè richiedere l’asilo, né possono chiedere un permesso provvisorio per ragioni umanitarie, né essere informati della possibilità. Abbiamo anche chiesto se venissero distribuiti o meno agli immigrati degli opuscoli informativi, Jamel ha detto di no e comunque lui possedeva solo quelli dell’Achnur e quindi degli avvocati convenzionati con il governo.

Aprire spazi di democrazia nei Cpt è impossibile perché è impossibile che in uno spazio di democrazia vi sia una negazione a priori dell’accesso ai diritti fondamentali delle persone.