domenica 22 ottobre 2006

 

diario21 - Mensile

 

 

Internazionale

 

 

 

Israele, Raya Cohen: “L’Europa presti più attenzione e solidarietà ai refusniks”

 

di Italo Arcuri

 

 

“Israele non riconosce il diritto all'obiezione di coscienza, per cui coloro che rifiutano di arruolarsi sono comunque convocati e inquadrati nell’esercito e subiscono le regole militari. Sono di solito processati per il rifiuto di un ordine militare e rischiano, in teoria, una sentenza severa (formalmente fino all’età di 45 anni) o sono umiliati e riformati in quanto mentalmente disabili”. E’ quanto afferma Raya Cohen, docente israeliana di storia, che si occupa di storia ebraica contemporanea e che insegna all’università Federico II di Napoli, in un’intervista al nostro giornale, a proposito dei refusniks.

 

Chi sono e cosa rischiano i refusniks?

 

 

“Israele non riconosce il diritto all'obiezione di coscienza e non prevede servizio civile alternativo. Coloro che rifiutano di arruolarsi sono comunque convocati e inquadrati nell’esercito e subiscono le regole militari. Sono di solito processati per il rifiuto di un ordine militare e quando escono ricevono un nuovo ordine e così via. Rischiano, dunque, in teoria, una sentenza severa (formalmente fino all’età di 45 anni) o sono umiliati e riformati in quanto mentalmente disabili. Tutti coloro che rifiutano il servizio militare per ragioni politiche sono chiamati “rifusniks. Nel 2003, sullo sfondo della brutale repressione dell’Intifada, dopo aver passato un anno in carcere, 5 rifusniks sono stati giudicati tutti insieme da un tribunale militare. Sono stati condannati per un altro anno di carcere e poi riformati, alla fine, come “inadatti”. Da allora sembra che l’esercito cerca di non arruolarne più di uno alla volta, perché così i rifusniks cedono prima. Di solito, l’esercito cerca di evitare il confronto con gli obiettori e li dichiara “inadatti”, tramite una commissione militare. Esiste anche una commissione militare interna, a cui è difficilissimo avere accesso, che ha riformato qualche soldato in quanto pacifista “totale”, cioè, che non fa critiche specifiche contro l’esercito israeliano. Solo quelli che insistono sul loro diritto di essere riconosciuti come obiettori di coscienza, perché non vogliono partecipare all’occupazione israeliana, sono processati. Essi rimangono in carcere finché sono sostenuti all’esterno dai movimenti, per poi continuare la loro lotta pacifista contro l’occupazione”.

 

 

Quale è stato il percorso che ha portato a dichiararsi “refusniks” i ragazzi recentemente incarcerati?

 

 

“Nel marzo del 2005, oltre 250 liceali si sono organizzati indipendentemente da altri gruppi e hanno firmato una lettera aperta nella quale hanno dichiarato di rifiutare “di prendere parte alla politica di occupazione e di oppressione” e hanno chiesto di servire la società israeliana in modo alternativo. Fra essi c’erano i 7 incarcerati e tanti altri che sono stati riformati. Da storica, posso dire che mi stupisce il fatto che giovani che sono stati educati nelle scuole d’Israele, i cui confini riconosciuti sono letteralmente spariti dalle carte geografiche, che studiano a “Shomron, Jehuda e Gaza”, nomi biblici dei territori Palestinesi occupati, ai quali non insegnano che “sotto Israele c’è la Palestina”, cresciuti tra eventi violenti, atti di terrorismo e “uccisioni mirate”, sentano il bisogno personale di non partecipare alla repressione dei palestinesi. Molto spesso sono giovani che non hanno mai incontrato dei palestinesi, ma sognano un futuro non violento a loro e a se stessi. Il rifiuto di arruolarsi è una decisione difficile, di coscienza appunto, perché nell’ “etos” israeliano l’esercito è la garanzia per la vita nazionale, quello che deve affrontare le minacce militare sull’esistenza dello Stato. Ma nessuno in Israele considera che controllare la vita di 4 milioni di Palestinesi contribuisca alla sicurezza di Israele stessa. La Palestina non ha un esercito e non possono minacciare la sicurezza dello Stato. Invece, da 40 anni l’esercito israeliano è coinvolto in repressioni, in “guerre sporche” in mezzo alla popolazione civile palestinese, che non può risultare una “vittoria”. La difficile esperienza che subiscono i soldati nell’affrontare la popolazione civile provoca un “rifiuto differenziale”; un movimento di “soldati contro il silenzio” che denuncia i crimini di guerra a cui i soldati (riservisti) sono stati testimoni: a gennaio 2002, 650 ufficiali hanno deciso di rifiutare di servire nei territori occupati; nel settembre del 2003, 27 piloti hanno rifiutato di eseguire un ordine illegale e immorale”.

 

 

Il loro atto di ribellione e di coraggio come viene percepito dall’opinione pubblica israeliana ed europea?

 

 

“La simpatia che l’Europa può portare nei loro confronti è molto importante, dato che si tratta innanzitutto di resistenza difficile dal punto di vista psicologico e sociale, e non tanto fisica. L’isolamento di tutti quelli che protestano fa sì che alla fine anche essi cedano e si chiudano dentro, nel loro mondo personale, sfuggendo alla politica”.

 

 

C’è qualcosa che l’Italia e l’Europa possono fare? Secondo lei, storica, che conosce molto bene la realtà israeliana, come si può risolvere la questione israelo-palestinese?

 

 

“Il problema è che mediamente in Europa ci si interessa poco di questa resistenza interna e pacifica. Ciò avviene per due motivi: il primo, perché si tratta di poche voci e non di una forza “che conta”; il secondo, perché si tende ad accettare la repressione militare dei palestinesi, proiettando su di essa la paura che crea la guerra contro il terrorismo in Europa. Il primo motivo mi sembra sbagliato perché non c’è un’opposizione più pertinente di questo rifiuto, dato che solo grazie all’esercito, cioè alla politica di forza, Israele può imporre le sue “soluzioni” al conflitto con i palestinesi. Il secondo motivo mi sembra anche sbagliato, perché, almeno fino ad ora, il terrorismo palestinese è nutrito dall’occupazione israeliana e a dall’isolamento economico che è stato imposto, piuttosto che dal terrorismo internazionale. Colui che cerca di ridurre la possibilità che diversi movimenti sovranazionali trovino grande eco nei territori occupati deve assicurare che la situazione politica ed economica rafforzi il quadro nazionale palestinese. Uno stato palestinese sovrano, accanto ad Israele, ridurrà la violenza fra le due parti al minimo e permetterebbe di trovare una coesistenza in futuro. Non esiste un’altra soluzione, dato che nessuna parte è abbastanza forte per imporre una soluzione all’altra, ed entrambe non hanno un’altra patria per andarsene”.

 

 

Un suo nipote, in Israele, adesso, rischia di finire in prigione, perché refusniks. Proprio partendo da questa sua esperienza diretta, vuole lanciare un messaggio all’opinione pubblica italiana?

 

 

“Mio nipote, Omri Evron sta scontando 14 giorni di carcere militare in isolamento, ha rifiutato di indossare la divisa ed è rimasto in mutande per 3 giorni. Se dovessi lanciare un appello non sarebbe certo solo per mio nipote ma per la liberazione di tutti prigionieri pacifisti, israeliani e palestinesi, che sono imprigionati solo perché si sono opposti all’occupazione. Come scrive Evron nella sua lettera: ‘Il mio rifiuto serva a portare l’attenzione sul fatto che non tutti sono pronti a farsi indottrinare e cooptare per cause nazionaliste e razziste’. In particolare, mi rivolgerei ad Amir Peretz il ministro della difesa, l’unico che possa riformare un soldato per ragioni ideologiche”.