l’Unità 16.5.08
La parola agli
«amici» di Franco Basaglia
Trent’anni fa veniva varata la legge 180, con la quale si avviava un processo,
non solo di radicale trasformazione dell’approccio alla malattia mentale ma di
una vera e propria rivoluzione culturale. Oggi appare doveroso soffermarsi a
riflettere sui cambiamenti epocali e sulle grandi
trasformazioni che ha determinato sulle istituzioni preposte alla tutela della
salute mentale, sulla rete dei servizi prevista, ormai riconosciuta quale unica
soluzione possibile, sul cambiamento di atteggiamento culturale nei confronti
di ogni forma di diversità, sul contrastare le disuguaglianze, le
discriminazioni e l’esclusione sociale, troppo spesso ad essa connesse, sulle
resistenze ancora presenti per una sua piena ed autentica applicazione e sui
possibili sviluppi futuri. Psichiatria Democratica - con un libro a cura di Emilio Lupo e Salvatore di fede - fa il punto sui
trent’anni dalla promulgazione della legge di riforma psichiatrica, quella
legge 180/78 che ha completamente cambiato il volto della Salute Mentale nel
nostro Paese. La pubblicazione - che verrà edita dalla storica associazione di
Psichiatria Democratica - contiene scritti di numerosi operatori impegnati da
sempre sul campo, nelle diverse articolazioni funzionali delle strutture
pubbliche ma raccoglie anche riflessioni, commenti ed esperienze di numerosi
esponenti della nostra complessa società, che sono sempre
stati vicini all’esperienza degli eredi di Basaglia. Sindacalisti,
scrittori, filosofi, magistrati, familiari di utenti,
mondo della cooperazione, economisti - difatti - non hanno fatto mancare, in
questa importante ricorrenza, il loro contributo di impegno e di idee. La
pubblicazione è arricchita dalle illustrazioni di Sergio Staino e di Riccardo
Dalisi. In questa pagina anticipiamo i contributi di Vincenzo Consolo, Luciano
Sorrentino e Vincenzo Scudiere.
l’Unità 16.5.08
Centottanta
testimoni per difendere la 180
di Vincenzo Consolo
TANTISSIMI I CONTRIBUTI al libro edito da Psichiatria Democratica a trent’anni
dall’approvazione della legge di riforma psichiatrica: non solo addetti ai
lavori, ma anche scrittori, filosofi, familiari di utenti,
magistrati, raccontano cosa ha significato per loro
E come tutti gli esseri umani vogliono cose semplici e essenziali, come una
casa dove vivere per esempio
Approvata dal Parlamento italiano quella famosa legge 180, lo Stato non ha
saputo subito approntare luoghi alternativi al manicomio, centri di
accoglienza, case-famiglia. Sono stati gli psichiatri democratici, gli allievi
ed eredi di Basaglia a organizzare concrete risposte
territoriali. Ma molto resta ancora da fare.
I cosiddetti malati mentali, gli esseri umani più sensibili, più fragili, che
si allontanano dal nostro contesto, spesso brutale,
violento, non sono, diciamo noi, che un segno della sanità dell’uomo. Vincenzo
Consolo - scrittore
Ripercorrere la storia della Legge 180 rappresenta il percorso di quanti prima,
durante e ancor oggi non hanno rinunciato all’idea che il malato mentale non è
assimilabile a un problema di ordine pubblico e quindi
risolvibile con la segregazione e l’isolamento ma è una persona a cui vanno
riconosciuti i diritti fondamentali e tra questi quello di sentirsi a pieno
titolo cittadino tra i cittadini.
Quando cominciammo anche noi sindacalisti ad occuparci di come aprire alla
società i manicomi, molti di noi venivano considerati
«pazzi» e/o sovversivi perché allora non passava per la testa di nessuno che
quelle persone potessero avere un rapporto normale con gli altri. A trent’anni
di distanza sarebbe utile attualizzare quelle esperienze per capire come
affrontare e governare i processi involutivi che spesso fermano le riforme.
Il Sindacato in questi anni ha continuato e continuerà a stare a fianco di tutti coloro che, quotidianamente, superando
ostacoli burocratici e resistenze politiche, sostengono e promuovono
l’integrazione contro la segregazione, l’integrazione contro l’isolamento.
Vincenzo Scudiere
Segretario Generale Cgil Piemonte
Le nostre esperienze ci dicono che non dobbiamo più vedere i nostri utenti come
casi disperati e senza speranza, ma come cittadini con problemi speciali e
bisogni particolari che hanno gli stessi diritti e responsabilità. Di per sé,
questo passaggio implica una ridefinizione del potere, della natura dell’aiuto,
del rifiuto di ogni forma di segregazione e ci aiuta a
ripensare la persona in una situazione più naturale, quale una casa e perché no
anche a un lavoro retribuito.
I nostri interlocutori privilegiati devono essere gli utenti e i loro famigliari.
Il dialogo fra i professionisti della salute mentale, gli utenti e i loro
familiari riveste una fondamentale importanza se si lavora con un’ottica
riabilitativa e di reintegrazione sociale ed è l’unico modo per focalizzare i
problemi reali: Come posso trovare una casa?
Posso essere di aiuto ad altri che si trovano nella
stessa situazione?
Come posso avere una vita soddisfacente e avere il controllo di quanto mi
accade?
Queste sono domande che implicano una vita normale: la casa, il lavoro, le relazioni
sociali. Domande che normalmente ci poniamo e che
appartengono alla vita di tutti i giorni e non al sistema psichiatrico,
rappresentando le attese che ognuno di noi ha dentro di sé. L’incontro
tra professionisti si riduce sempre a interminabili
discussioni su «vecchie pratiche» e allo scontro tra poteri contrapposti che
portano a mediazioni che ricadono sulla gente, costretta a subirne le
conseguenze senza avere la possibilità di esprimere il proprio punto di vista.
Pensate solo a quanto sia difficile demolire, anche
con dati alla mano, alcuni miti che appartengono ancora alla psichiatria, ad
esempio che strutture protette e controllate di 20 posti letto possono essere
luoghi di vita normale o luoghi della riabilitazione con il pericolo che si
induca un’ulteriore razionalizzazione per ritrovare spazi più grandi di
«residenzialità» protratta.
Questi miti limitano fortemente la possibilità di reinserimento nella società
civile delle persone psichiatrizzate e sopravvivono perché in fondo riflettono
gli interessi e le scelte della classe professionale. Con ciò non voglio dire
che le esperienze di residenzialità transitoria e differenziata
non abbiano svolto una funzione utile perché hanno rappresentato un tentativo
di sfuggire all’istituzionalizzazione, ma è fatale che strutture di questo
genere possano diventare luoghi di attesa infinita. Queste riflessioni
dovrebbero indurre una domanda: le Strutture sono ciò che gli utenti realmente
vogliono? Le esperienze alternative (Conolly , Basaglia, Pirella, Mosher e
tanti altri) ci dimostrano che le persone psichiatrizzate rifiutano anche le
forme di istituzionalizzazione più attenuate, a favore di interventi integrati
di sostegno in una casa. Se teniamo conto di queste esigenze dobbiamo superare
il nuovo paradigma rappresentato dalla parcellizzazione del manicomio in
strutture che svolgono la sua stessa funzione. Quindi non dobbiamo avere più
luoghi di trattamento specifici ma case, lasciare che sia la persona a
scegliere anziché essere collocata, favorire il recupero un ruolo normale con
tutta la sua contrattualità affinché la persona psichiatrizzata esca dal ruolo
di paziente e torni a vivere in un contesto di vita permanente e non
transitorio o preparatorio ad altre soluzioni transitorie, organizzando un
sostegno personalizzato con servizi flessibili e non secondo protocolli rigidi
e standardizzati.
Luciano Sorrentino, Direttore Dsm di
Torino