LIBERAZIONE, venerdì 29 febbraio 2008. Le problematiche relazioni umane e il controllo del comportamento.

 

Luigi Attenasio* e Angelo Di Gennaro**

 

La notizia inquieta: il Segretario del Partito Democratico Walter Veltroni, nonché candidato premier, apre alla castrazione chimica dei pedofili. Essa consiste nella somministrazione di farmaci che bloccano  gli ormoni sessuali maschili. Apertura che fa seguito a quanto affermato cinque anni fa dal leghista Calderoli e, più recentemente, dopo i fatti di Agrigento, da Gianfranco Fini. A questo punto cominciano le prese di posizione. La destra è d’accordo. Veronesi pure: può dare risultati. Il farmacologo Silvio Garattini insiste sulla mancata sperimentazione e sulla necessità di usare, semmai, terapie psichiatriche: non è soltanto un disturbo ormonale ma, soprattutto, psichiatrico. La Bindi ritiene che si tratti di una soluzione anticostituzionale e perfino pericolosa. Non è affatto certo, afferma lo stesso Presidente della Commissione Sanità al Senato Ignazio Marino in un recente dibattito televisivo, che il farmaco sia in grado di controllare un fenomeno che presenta numerosi risvolti di carattere psicologico e, proprio per questo motivo, la pedofilia, quand’anche “castrata”, potrebbe prendere altre strade ed altre forme. L’idea non piace neanche alla Chiesa: è grave e non neutralizza il pericolo. Raffaele Morelli parla esplicitamente della castrazione come un modo per vendicarsi. La scienza e la Chiesa scelgono la cautela, la “grande politica” opta per la linea dura.

E noi? Scontato evidentemente che queste persone devono essere messe in condizione di non nuocere a tutti i costi ma questo non è il nostro compito, a noi questa vicenda ne ricorda altre. Per esempio, la tecnica del problem-solving, ossia la filosofia, decisamente americaneggiante, secondo la quale ad ogni problema non può che corrispondere una soluzione ma anche soprattutto che non esiste il problema se non c’è la soluzione, e cioè che vi è una connessione diretta tra la conoscenza scientifica del problema e l’intervento operativo che conduce alla soluzione razionale, che supponiamo ottimale. Ci sarebbe tanto da discutere sui danni fatti da un tale paradigma e sulla logica conseguente ma per ora ci basta ricordare che far leva sul maneggiamento dei sintomi piuttosto che discutere con il paziente su come migliorare la sua qualità di vita è tutt’altro atteggiamento, sia scientifico che umano. Se il primo rimanda ad una visione secondo la quale è legittimo manipolare persino la vita umana, il secondo si fonda sulla fiducia verso il dialogo tra umani, ovi trovi un posto dignitoso persino la follia, non solo oggetto di conoscenza ma anche strumento di conoscenza e conoscenza essa stessa.

E ancora il Ritalin: dobbiamo forse dimenticare la tendenza sempre più frequente a somministrare Ritalin, amfetaminosimile, ai bambini con disturbo da deficit da attenzione e iperattività?

Oppure ci dobbiamo dimenticare della lobotomia, cioè togliere un pezzo di cervello, ripresa in America alla grande non più utilizzando il punteruolo da ghiaccio, come si faceva fino agli anni 80 (proprio così!!!) ma il più “scientifico” e incruento laser?

Oppure dobbiamo trascurare quanto proposto giorni fa da alcuni psichiatri italiani di favorire un maggiore uso dell’elettroshock nei pazienti psichiatrici? Le parentele tra tutto ciò ci sembrano abbastanza strette. Per risolvere la problematicità delle relazioni umane l’unica strada possibile diventa quella del controllo del comportamento, o quella di amputare (non più un arto o una parte del cervello), cosa estremamente più drammatica, i conflitti, quelli interni, quelli relazionali, le problematiche familiari, del lavoro, della casa, tutto quello insomma che è parte determinante della vita, della storia di una persona, riproponendo tra l’altro il nefando, perverso connubio tra cura e controllo, cura e custodia.

Insomma, da questa breve analisi emerge chiaramente che siamo di fronte al dilagare di una politica liquida in trasformazione, ad una ex/fu sinistra che rincorre la destra, probabilmente per qualche voto in più al centro e per marcare sempre più nettamente le distanze dalla vera Sinistra, ma anche a un sostituto procuratore presso il Tribunale per i minorenni di Roma che sul Messaggero di oggi riesuma la categoria della pericolosità dei “matti” (che nella legge non esiste più!!!) affermando che l’unica eccezione per sottoporre qualcuno a pratiche sanitarie contro la sua volontà è costituita dal Trattamento Sanitario Obbligatorio per pazienti psichiatrici in quanto “pericolosi per sé e per gli altri”.

Che cosa ci rimane, dunque, di tutta questa vicenda? Quale rispetto poter avere di noi stessi come operatori democratici se dimentichiamo quanto imparato in questi anni di lotta antiistituzionale e cioè che la terapia è arricchimento e varietà di reti aperte a più attori e risorse che entra nel rischio della vita, e non dunque procedura ossificata e codificata che soffoca e “castra” le spinte emancipative. Ci sovviene quanto ci disse Pietro Ingrao tempo fa parlando di chi soffre: “Qui è la domanda a cui non so rispondere: che cosa è la salute e che cosa è la malattia? Fin dove quella malattia è malattia o è ricerca disperata di salute, illusione di salute? Mi rivolgo agli operatori: che cosa è la cura, fin dove è aiuto e fratellanza, e fin dove, invece, è coercizione?”

Ingrao parlò, e non fu una lusinga, di rispetto verso quegli operatori, cioè noi, che ogni giorno cercano risposte a domande così aspre e un criterio per muoversi in quella tensione dell’individualità che in qualche modo confligge con la norma, e quale norma, e fatta da chi. Con grande umiltà, molto lontana dalle attuali arroganze e superficialità, continuò, “io non sono capace di dare non dico aiuto, ma qualche consiglio per questo aspro compito; insomma il problema inaudito che si trovano ad affrontare ogni giorno, non so con quante speranze e con quante carte in mano”. Se cura è dunque non solo trattamento, esito, ma anche gestione, prendersi cura con implicito il concetto di preoccupazione, ansia e anche attenzione nei confronti di chi soffre o di chi è più debole, dove lavoro terapeutico e liberazione vanno a braccetto, quale migliore definizione di terapia di quella di Franco Fortini: “la terapia di cui parlo  è l’insieme dei processi intenzionali, messi in opera al fine di modificare i rapporti tra gli uomini vissuti come sofferenza priva di meta e trasformarli in rapporti tra uomini vissuti come sofferenza dotata di meta, ossia come una modalità della gioia”.

 

 

Luigi Attenasio* e Angelo Di Gennaro**